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Storia di due genitori che chiudono la casa famiglia: “A 40 anni voltiamo pagina”

Massimo e Daniela hanno tre figli, ma tanti altri ne sono passati nella loro casa negli ultimi 15 anni. Ora che i primi figli adottivi hanno superato i 18 anni, hanno però deciso di voltare pagina: “Il volontariato è stato la nostra vita ma gli anni passano. Ci rimettiamo in gioco”

casa famiglia

ROMA – Hanno vissuto per 15 anni come una “comunità familiare” allargata, poi come una casa famiglia, accogliendo minori in difficoltà come fossero figli loro: adesso, Massimo e Daniela, con tutti i loro figli ormai grandi, hanno deciso di chiudere questa esperienza, ritrovandosi semplicemente come famiglia. “Il volontariato è stato, per tutti questi anni, la nostra vita e anche il nostro lavoro – racconta Massimo – E’ stato bellissimo, ma gli anni passano e cambiano le situazioni. Così, abbiamo sentito che era giunta l’ora di chiudere questa esperienza. Ci rimettiamo in gioco, dopo 15 anni, e non è facile”.

Massimo, quando inizia questa storia?
Il 13 novembre del 1997, con la nascita del nostro primo figlio, Matteo. Daniela non lavorava e allora io, per mantenere la famiglia ammucchiavo ore di straordinari, dipendente di un’importante società di assicurazioni a Firenze. Tre mesi dopo, Daniela trovò un lavoro part-time pomeridiano e io presi un congedo, per occuparmi del bambino. Ci passavamo le consegne sulla porta di casa. Quando anche Daniela iniziò a lavorare tutto il giorno e Matteo entrò al nido, iniziarono i dubbi: che senso aveva mettere al mondo un figlio, per farlo crescere in una famiglia che non si incontra mai? Ci sembrava una vita schizofrenica e senza logica. Fu nel pieno di questa crisi, che si inserì don Alessandro Santoro, sacerdote delle Piagge, un quartiere difficile alla periferia di Firenze. Ci disse che stava cercando una famiglia per aprire una casa di accoglienza a Villore, vicino a Vicchio nel Mugello. Andammo a vedere il posto una domenica di marzo 1999. Ci pensammo molto,  poi prendemmo la decisione: a settembre iniziammo i lavori di ristrutturazione nella canonica della chiesa di San Lorenzo a Villore. A giugno 2000 ci trasferimmo e, in quello stesso anno, iniziammo l’accoglienza. A luglio, nacque il nostro secondogenito Andrea”.

Ricordi le prime esperienze?
Il primo figlio affidatario fu un’adolescente borderline, poi una ragazza cinese scappata di casa perché i genitori volevano costringerla ad un matrimonio combinato. Poi continuammo, accogliendo nella nostra famiglia soprattutto adulti con percorsi alternativi alla detenzione. Arrivò così Elisabetta, una ragazza rom, mamma di due figli, Daniele e Marcella, che si trovavano in istituto. Ottenemmo l’affido anche di questi e li prendemmo con noi, ricongiungendoli alla mamma. Arrivò anche Sonia, con i suoi figli. E poi Driss, un ragazzo marocchino. In quel periodo sperimentammo il primo affido familiare consensuale con un bambino di circa 18 mesi, Dario. Sua madre doveva operarsi ma non sapeva a chi lasciare il bambino per qualche settimana. Eravamo una comunità, passavamo la giornata insieme e la sera ci riunivamo come famiglia, anche se spesso con noi a cena c’erano i figli delle donne in affido. Eravamo 5 adulti e 7 bambini, compresi i nostri: 12 bocche da sfamare tutti i giorni”.

Come si manteneva questa grande famiglia?
L’accoglienza, a Villore, non era gestita dai servizi sociali, ma era don Alessandro che ci mandava su chi riteneva avesse necessità. Così, avevamo lo spacciatore e il tossicodipendente, il senza fissa dimora e il minore border-line. Era un crogiolo di culture, situazioni, storie che non sempre trovavano l’amalgama necessaria alla convivenza. Dal punto di vista economico dipendevamo dal nostro lavoro agricolo e dalle donazioni che don Santoro riusciva a procurare. Dal punto di vista socio-educativo, invece, il percorso da intraprendere con queste persone doveva essere concordato con la comunità di base, che però non riusciva a riunirsi con l’urgenza spesso necessaria: in un percorso di affido, quasi sempre le decisioni devono essere prese rapidamente. Così, dopo tre anni, la crisi divenne evidente: ci fu la rottura e lasciammo il casale. Elisabetta reagì scappando e si portò via i bambini, per i quali fu emesso un decreto di rintraccio e riconsegna alla famiglia affidataria. Noi ci trasferimmo poco lontano da Villore. Dopo un anno, il 17 agosto 2004, ci telefonarono i carabinieri della stazione di Vicchio, dicendoci che Elisabetta era stata arrestata e Daniele e Marcella trovati. Ci chiesero se volevamo andare a prenderli o recedere dall’ affido. Casualmente, ma il caso non esiste, in quattro anni era la prima volta che avevamo una nonna a dormire a casa nostra. Lasciammo con lei i nostri figli che dormivano e alle 22 partimmo con una Panda 4×4. Arrivammo a Roma alle 3.30. Alle 9 della mattina successiva avevamo in casa quattro figli! Trovammo una casa più grande e, nel luglio 2006, decidemmo di diventare “casa famiglia”, collegandoci con i servizi sociali. Due mesi dopo, arrivò Giorgio, un altro bambino, che passò con noi l’intero anno scolastico. A marzo 2007 arrivò Jursalem, una diciassettenne somala che aveva tentato il suicidio in un’altra comunità della zona. In quello stesso anno, nacque il nostro terzo figlio, Riccardo. L’ultimo affido è stato quello di Ivan: quando è arrivato da noi, nell’ aprile 2009, doveva compiere tre anni. Aveva dei problemi fisici enormi, camminava a fatica, era quasi cieco da un occhio e aveva un’occlusione del 95% delle adenoidi. Dopo due operazioni e numerose visite al Meyer, vederlo correre è stata una delle più grandi soddisfazioni di questo ‘lavoro’. Ivan è tornato a vivere con il padre e i fratelli nel maggio scorso.

E’ stato allora che avete deciso di “smettere”?
La decisione è maturata lentamente, i dubbi ci sono sempre stati. A soffrire di più le difficoltà e le sfide dell’accoglienza sono i figli naturali, perché vivono a contatto quotidiano, 365 giorni l’anno, 24 ore su 24, con questi bambini che abbiamo deciso di portare nella nostra casa. Soprattutto Matteo, il più grande, è sempre stato molto chiaro nel non condividere questa scelta, ma determinato a subirla. Oggi, i nostri primi figli adottivi sono diventati grandi: Daniele ha 20 anni Marcella quasi 18. Anche Ivan è andato via. Così, lo scorso anno, abbiamo iniziato a domandarci se avesse senso continuare questa esperienza, ricominciando nuovi affidi. Fare i genitori di bambini è qualcosa di delimitato nel tempo. Poi, insieme ai bambini, crescono anche i genitori: continuare ad avere figli piccoli sarebbe come restare sempre nella stessa classe. D’altra parte, però, accogliere adolescenti presenta altre difficoltà, che una famiglia fatica ad affrontare: dovremmo trasformarci in operatori sociali, cosa che in realtà non siamo mai stati. Abbiamo fatto i genitori e abbiamo avuto la fortuna di farlo anche per altri figli che non sono nati da noi. Abbiamo concluso che è il momento di cambiare. Siamo ancora abbastanza giovani e in forze per poterlo fare, ma non ti nascondo che abbiamo un po’ paura…

Cosa vi spaventa di più?
La difficoltà maggiore è rientrare in quel mondo del lavoro che abbiamo lasciato ormai 15 anni fa. Le competenze che avevamo non ci sono più riconosciute e non avrebbe senso andare a fare gli educatori in una struttura dove gli operatori si turnano e vedi chiaramente tutte le incongruenze e le criticità di un’accoglienza fatta in questo modo. Certo, non è il momento migliore per cercare un lavoro oggi in Italia, soprattutto per persone sopra i 40 anni. Ma siamo fiduciosi. Abbiamo passato tanti momenti difficili e di cambiamento: la capacità di affrontarli e superarli è la più grande competenza che abbiamo da offrire. (cl)

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